domenica 13 settembre 2015

INIZIA LA SCUOLA!



Settembre è ormai arrivato da un po’…e domani la maggior parte delle scuole riapriranno!
Un appuntamento importante per molti, soprattutto per i nuovi piccoli studenti della scuola primaria che si troveranno ad affrontare una nuova grande avventura.

COME VIVE UN BAMBINO L'INGRESSO ALLA SCUOLA PRIMARIA?
Sicuramente questo nuovo inizio coincide con un processo di crescita in cui il bambino si trova a dover compiere uno sforzo di adattamento alla nuova realtà. Interessante come la Dott.ssa Gentile di Roma definisce questo ingresso del bambino “un po’ come uscire di casa, da solo, col proprio bagaglio costruito nei precedenti cinque anni e avventurarsi in un mondo nuovo, verso la crescita e quindi verso la vita, con le sue sfide e i suoi rischi”.
In generale un bambino di 5-6 anni è pronto ad affrontare questi cambiamenti in quanto dovrebbe aver raggiunto un certo grado di autonomia personale, ha maturato nel tempo consapevolezza di se stesso e degli altri e ha iniziato a trovare piacere nell’apprendere e conoscere nuovi contenuti della realtà.
Di solito i primi giorni vengono vissuti con serenità nonostante ci sia il grande sforzo di adattarsi alle nuove regole. Ogni bambino, in ogni caso, avrà i suoi ritmi e quindi è giusto seguirli dando lui il tempo di affrontare tutte le novità. 

I GENITORI COSA POSSONO FARE?
Molto importante è anche il punto di vista dei genitori in quanto saranno loro a veicolare molte impressioni sulla scuola. Quindi è fondamentale non solo chiedersi come vivono questo ingresso i bambini, ma come lo vivono anche gli adulti. Se i genitori sapranno vivere con serenità questo nuovo inizio, di riflesso anche i bambini si sentiranno più tranquilli e positivi verso la nuova realtà. Se invece l’ingresso alla scuola viene visto come un’occasione per capire quanto è “bravo” il proprio figlio, sarà più facile sviluppare nel piccolo ansia da prestazione o una vera e propria paura della scuola.
È importante, quindi, che questa avventura venga vissuta giorno per giorno insieme, condividendo paura e timori, spiegando bene ai proprio figli come saranno le cose in modo che loro possano prepararsi per un ambiente ai loro occhi il più possibile sicuro e prevedibile. Preparare il materiale insieme, scambiarsi racconti sulla vita scolastica attuale (dei propri figli) e passata (dei genitori), guardare insieme i quaderni e i lavori al fine di gratificare la loro fatica e il loro impegno sono tutti comportamenti che aiutano il bambino ad adattarsi e gli insegnano a comprendere quanto la scuola sia importante. 

I DOCENTI COSA POSSONO FARE?
Anche i docenti sono ovviamente un fondamentale ingrediente al fine di rendere questo percorso di vita il più sereno possibile. I primi giorni sono quelli della conoscenza sia dei nuovi compagni e delle insegnanti, dell’ambiente e dei suoi ritmi molto diversi da quelli della scuola dell’infanzia. È importante che si possa parlare, anche a scuola, di come viene vissuto emotivamente questo nuovo percorso in modo che anche i bambini possano comprendere che anche con le nuove insegnanti si può parlare di come si sta, di come si vive questa avventura, delle paure e
delle cose che entusiasmano. Anche i primi apprendimenti dovrebbero essere anche a scuola scarichi completamente dalla prestazione, ma carichi invece della voglia di imparare consapevoli della fatica e del fatto che giorno dopo giorno si riuscirà a fare meglio.

Beh…il 14 settembre è alle porte…quindi manca solo…un grande in bocca al lupo!

Dott.ssa Prada Laura

lunedì 16 febbraio 2015

LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO NEI BAMBINI

I bambini hanno una predisposizione fisiologica ad apprendere il linguaggio, un processo molto complesso che si verifica nel corso dei primi tre anni di vita. Fin dalla nascita, infatti, sono dotati di sistemi percettivi specifici rivolti all’apprendimento linguistico.
Non si può parlare di linguaggio senza inserirlo all’interno di una capacità più ampia, ovvero la capacità comunicativa; allo stesso tempo, è importante considerare la specificità del linguaggio, cioè le particolari proprietà che rendono il linguaggio unico e diverso da altri sistemi comunicativi. Queste proprietà sono essenzialmente due: la creatività e l’arbitrarietà. La creatività fa sì che la conoscenza di una lingua dia la possibilità di produrre un numero potenzialmente infinito di messaggi a partire da un numero finito di unità-base di quella lingua (fonemi e parole). Con il termine arbitrarietà ci si riferisce al fatto che, all’interno del linguaggio, la relazione fra suoni e significati è pre-stabilita; il significato viene appreso e trasmesso culturalmente di generazione in generazione.

Lo sviluppo della comunicazione e del linguaggio avviene attraverso una serie di fasi che si succedono una all’altra per tutti i bambini ma che sono soggettive per ognuno, per ciò che riguarda tempi, modi e strategie utilizzate.

I primi due mesi di vita

I primi suoni che il neonato produce sono di natura vegetativa (sbadigli, ruttini, ecc.), o associati al pianto. Il bebè piange quando ha fame, sete, freddo, sonno, perché vuole cambiare posizione o per qualsiasi disagio fisico. Fin dalla nascita, il pianto del lattante sollecita la tempestiva risposta istintuale dei genitori ai suoi bisogni e diviene la principale e più efficace forma di linguaggio. E’ difficile sottrarsi al pianto di un neonato e questo è legato al bisogno di sopravvivenza dell’uomo e dei cuccioli di ogni specie animale.
Nella primissima fase i meccanismi vocali del lattante non sono ancora sviluppati per produrre veri e propri suoni linguistici. Dalla nascita a 6 settimane le vocalizzazioni del bebè sono effetto di riflessi innati che appartengono al bagaglio genetico della specie: lamenti di dolore o disgusto, gridolini di gioia, sospiri, starnuti e suoni gutturali diversi. Verso i 2 mesi di vita si hanno le prime produzioni di suoni più simili al linguaggio, definite cooing (tubare), formate da vocali ripetute. Vengono prodotte dal neonato quando è contento e consentono l’esercizio dell’apparato vocale.

Tra i 2 e i 6 mesi

Dal punto di vista fonologico, tra i 2 e i 6 mesi avviene l’evoluzione relativa alle vocalizzazioni non di pianto, in cui compaiono e si stabilizzano i suoni vocalici. Verso i 3 mesi inizia la fase del balbettio, costituita da vocali semplici o unite a consonanti (ma-na-da-go). In questo periodo le vocalizzazioni diventano protoconversazioni: il bambino sembra rispondere all’adulto che gli parla, rispettando veri e propri “turni di conversazione”.

A sei mesi ha inizio l’imitazione di alcuni semplici suoni pronunciati dall’adulto, ma che fanno parte del repertorio del bambino. Il piccolo è in grado di controllare volontariamente alcuni suoni consonantici ed è alle prese con una forma caratteristica di linguaggio infantile: la lallazione (o babbling canonico), che consiste nella ripetizione dello stesso suono più volte (ma-ma-ma-ma; ta-ta-ta-ta). Il fenomeno della lallazione diventa sempre più complesso e variato, con l’emissione di brevi composizioni bisillabiche che tanti genitori scambiano per protoparole, ma non si può ancora parlare di linguaggio verbale.

Tra i 9 e i 13 mesi

Durante il primo anno di vita prendono forma i prerequisiti dell’apprendimento del linguaggio: intenzionalità e reciprocità e, nello sviluppo tipico, le prime parole compaiono tra i 9 e i 13 mesi. Esse sono prevalentemente legate al contesto di riferimento o connesse con le attività in corso. I bambini tendono inizialmente ad utilizzare le parole per indicare persone a loro vicine (mamma, papà, nonni, fratelli/sorelle), oggetti del quotidiano (cibo, giocattoli, vestiti) o azioni che compiono abitualmente (dormire, salutare, vestirsi, leggere, andare a dormire, negare, affermare). A 1 anno si assiste al fenomeno dell’olofrase: con una sola parola il bambino esprime una frase più complessa, un vero e proprio “concentrato di significati”. Ad esempio dice “nanna” per esprimere “voglio andare nel mio lettino a fare la nanna”.

E’ stato notato che le prime parole relative ad oggetti si riferiscono a cose piccole, accessibili e manipolabili (ad esempio le scarpe e le calze) o a cose che si muovono (ad esempio le automobili). Questo perchè tali oggetti colpiscono maggiormente l’attenzione del bambino e sono più facilmente memorizzabili.

Alla fine del primo anno i bambini manifestano l’intenzione comunicativa attraverso il gesto e la voce (richiesta e denominazione). La richiesta è ritualizzata (gesto ritmato della mano di apertura e chiusura) e accompagnata da vocalizzi. La denominazione è espressa attraverso l’indicare e il mostrare ed è accompagnata da vocalizzi, prima, e dalle parole, poi. Questi gesti comunicativi sono definiti intenzionali deittici.

Tra i 15 e i 20 mesi

Dai 15 ai 18 mesi, con l’espansione del vocabolario, l’interazione con gli adulti e, soprattutto, con lo sviluppo della consapevolezza di sé (“autocoscienza”), aumenta anche la capacità di comporre frasi sempre più complesse e articolate. A 16 mesi il vocabolario medio di un bimbo italiano si compone di 50 frasi circa. Il piccolo capisce molte più parole di quante ne sappia usare. Chiacchiera continuamente sia quando è da solo, sia quando è con i familiari usando un linguaggio di suoni e sillabe ben modulati, che simula quello degli adulti ma che non ha alcun significato. In questo periodo il bambino, vedendo la sua figura riflessa dinanzi ad uno specchio, si riconosce in questa.

A 18 mesi compaiono, in successione, diversi meccanismi morfosintattici e si assiste ad un’esplosione del vocabolario. I bambini incrementano il numero di parole prodotte, imparano più termini in breve tempo e, a 20 mesi, il numero di vocaboli a disposizione è triplicato.

Tra i 2 e i 3 anni

Intorno ai 2 anni il bambino è in grado di formulare frasi che hanno 2 o 3 parole.

Se l’apprendimento dei suoni avviene per imitazione, quello dei significati avviene per associazione e rinforzo. Se, per esempio, la madre pronuncia una determinata parola ogni volta che porge o indica al bambino un certo oggetto, il piccolo, dopo alcune volte, impara che a quell’oggetto è associata quella particolare parola.

Tra i 2 e i 3 anni lo sviluppo grammaticale ha una rapida accelerazione, che porta all’acquisizione dei meccanismi morfosintattici salienti della propria lingua madre. La lunghezza media delle frasi è in continua espansione; compaiono le prime proposizioni dichiarative ed è presente l’accordo soggetto-verbo.

Tra i tre e i quattro anni i bambini raggiungono l’apprendimento delle strutture di base di tutte le frasi di una lingua.

E’ bene ricordare che esistono rilevanti differenze da bambino a bambino che possono essere dovute a cause diverse: genetiche, sessuali (le femmine, in genere, parlano prima dei maschi), ambientali (i bimbi allevati in istituti, o da persone che interagiscono poco verbalmente, possono presentare un ritardo nell’acquisizione del linguaggio).

Suggerimenti ai genitori

L’apprendimento del linguaggio dipende dallo sviluppo dell’apparato fonetico associato al continuo esercizio e all’incoraggiamento dell’adulto. Il bambino diviene più rapidamente padrone del codice comune di comunicazione attraverso l’interazione con il genitore che gli parla. E’ quindi importante:
  • Raccontargli fiabe e storie, rendendolo attivamente partecipe del racconto.
  • Insegnargli nuove parole e fargli notare le differenze fra gli oggetti.
  • Non anticipare i suoi discorsi e non pronunciare le parole al suo posto, ma ascoltare e rispettare i suoi tempi e turni di parola.
  • Non semplificare il linguaggio, utilizzando il “bambinese”, ovvero storpiando parole come “cane” in “bau”, o “gatto” in “miao”. È preferibile scegliere parole semplici e di facile comprensione e parlare con calma. Questo non significa impoverire il linguaggio, ma offrire al bimbo l’occasione di imparare con le capacità che ha a disposizione in quella fase dello sviluppo.
  • Evitare di sgridarlo o trasmettere le proprie ansie se fa fatica a parlare: spesso si tratta di problemi temporanei che si risolvono con la crescita.
  • Tenere a mente che ogni bambino è unico, perciò ha i suoi ritmi e i suoi tempi nell’acquisire tutte le capacità.
  • Parlare al bimbo fin dalla nascita con un linguaggio chiaro e adulto, senza pensare che non sia ancora in grado di capire.
  • Chiamarlo con il proprio nome. In questo modo gli si attribuisce una identità relazionale in un processo di sviluppo.
FONTE: http://www.ilraggioverde.org/lo-sviluppo-del-linguaggio-da-0-a-3-anni/

giovedì 12 febbraio 2015

I LITIGI TRA I BAMBINI

Le caratteristiche dei litigi infantili

Per i bambini il litigio rappresenta un evento fisiologico nell’ambito dei rapporti interpersonali. Minori e adulti, sovente, danno dei significati differenti alle dispute. Talvolta i genitori e gli insegnanti attribuiscono dei contenuti impropri alle controversie dei propri figli e alunni. Per i bambini il litigio è un fatto naturale, quasi un’attività ludica endemica alle dinamiche relazionali. Inoltre, i conflitti, secondo la Nigris (2002, pag.34), “risultano una condizione per lo sviluppo armonico del soggetto”.
I contrasti fra i piccoli, come Novara fa notare (2014, pag. 54), sono caratterizzati da due archetipi, ovvero la notevole frequenza temporale e il localizzarsi nell’ambito di processi amicali. La Garvey, citata in Novara (2014, op. cit., pag. 54), afferma che in una scuola dell’infanzia, per esempio, i bambini litigano con una media di 11- 12 alterchi all’ora. Queste dispute hanno una breve durata: infatti, nel giro di qualche minuto gli infanti ritornano a giocare insieme, come se nulla fosse accaduto.

L’autoregolamentazione dei bambini

I motivi alla base delle contese infantili sono molteplici. Solitamente i bambini litigano perché vogliono possedere una cosa che l’altro ha o perché desiderano giocare con gli stessi giocattoli o, ancora, perché aspirano a ricoprire lo stesso ruolo all’interno di un gioco di gruppo o la stessa funzione nell’ambito della vita quotidiana della classe o, semplicemente, perché hanno opinioni contrastanti sulle stesse tematiche (Carugati e Selleri, 1996, pag. 136 – 142; Berti e Bombi, 2005, pag. 309 – 310; Carugati e Selleri, 2005, pag. 207 – 212).
I piccoli solitamente, come Novara sostiene (2014, op. cit., pag. 56), hanno delle notevoli capacità di autoregolamentazione. Frequentemente i loro litigi non trascendono in episodi di violenza, come molti adulti temono, ma si risolvono in maniera naturale senza lasciare traccia di risentimento.
Esistono delle tecniche che consentono ai bambini di migliorare la naturale capacità di risoluzione dei conflitti. Alcune di esse non prevedono la partecipazione degli adulti di riferimento (genitori e insegnanti).
Novara (2014, op. cit., pag. 56), per esempio, propone una strategia di risoluzione di conflitti, che sfrutta le capacità maieutiche dei minori. Qualche volta, però, accade che i bambini trasmodano nei loro litigi perché hanno come punto di riferimento il giudizio degli adulti, ovvero è come se volessero conquistare l’approvazione di un adulto importante che hanno interiorizzato, per cui percepiscono la disputa nell’ambito della dinamica bontà-cattiveria. È un modo per attribuire all’altro l’inizio del litigio, e quindi il ruolo di “cattivo”, e a se stessi la funzione di vittima, ossia di personaggio buono.

L’intervento inopportuno degli adulti

Novara (2014, op. cit., pag 57) sostiene che l’intervento dell’adulto nell’ambito dei litigi fra bambini è inopportuno, in quanto cerca di imporre una soluzione che spesso è distante da quella che i minori naturalmente trovano.
L’adulto, inoltre, interviene interrompendo il contrasto. Questo non consente ai piccoli di portare la disputa a termine con la finalità di trovare una mediazione, attraverso l’esercizio delle abilità comunicazionali.
In alcune circostanze sono gli stessi bambini che chiamano in causa l’adulto, con la funzione di arbitro, per stabilire chi ha ragione. L’adulto, in questo caso, non deve arrogarsi il compito di decidere chi ha ragione, ma semplicemente evidenziare quanto c’è di valido e congruente nelle ragioni dell’uno e dell’altro. Di frequente chi cede in un litigio è quello che emotivamente è più forte, ovvero riconosce che lo stare bene con l’altro è più importante, per esempio, del possesso di un oggetto.

Efficacia del metodo maieutico di risoluzione dei conflitti

La ricerca svolta da Novara e Di Chio in alcune scuole dell’infanzia e primarie della provincia di Torino (2014, op. cit., pag. 54) ha reso evidente che il metodo maieutico di risoluzione dei conflitti, che abitua i bambini a risolvere da sé i propri litigi, fa decrescere la loro frequenza. Inoltre il permettere che i bambini gestiscano da soli i propri contrasti, li aiuta a sviluppare tre paradigmi:
quello di implementare il principio di realtà, cioè l’adattare i propri desideri e bisogni al contesto esterno;
quello del decentramento emotivo e cognitivo, per cui si agevola la consapevolezza che esistono le emozioni vissute dagli altri e punti di vista cognitivi differenti dal proprio;
quello del pensare in modo creativo – divergente. In altre parole, il bambino si abitua a pensare a soluzioni, frutto del pensiero creativo – divergente, che possono accontentare entrambi i contendenti.

Contesti scolastici, conflitti e mediazione

Nei contesti scolastici, l’insegnante è chiamato esplicitamente in causa per risolvere una disputa, divenuta violenta, fra due alunni. In questo caso il compito del docente è quello di aiutare gli allievi a reperire una forma di obiettività che consenta di dirimere pacificamente il conflitto. Nello specifico, il docente deve invitare i due membri ad esprimere le emozioni provate in quel momento e le ragioni alla base dei loro comportamenti. Successivamente deve sollecitare i due minori a mettersi uno nei panni dell’altro, con l’intento di esporre le emozioni provate dall’altro e le sue ragioni. In ultimo, attraverso una strategia di problem solving, è opportuno impegnare l’uno e l’altro in una ricerca volta a trovare più soluzioni al contrasto, con il proposito di escogitare quella giusta, ovvero quella che soddisfa ambedue, permettendo la riconciliazione (Carugati e Selleri, 2005, pag. 74 – 75).
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2015/02/bambini-psicopedagogia-mediazione/


FONTE: http://www.stateofmind.it/2015/02/bambini-psicopedagogia-mediazione/

venerdì 17 ottobre 2014

NON POSSO VIVERE SENZA CELLULARE!!

Un telefono cellulare è per sempre. La prova del nove? Anche l'ozio in spiaggia può diventare una prolungamento dell'ufficio o della vita sociale, con eccessi preoccupanti che possono trasformarsi in malattia. Nomofobia: il nome già c'è, anche se non bisogna farsi tradire dagli studi classici. La nomofobia non è la “paura delle regole”, ma una parola “portmanteau” che contiene il gioco di parole aglosassone “no-mobile” più il termine greco fobia. In altre parole, una paura di nuova generazione: quella di non avere il cellulare a portata di mano, di non poter chiamare e ricevere telefonate, di non essere liberi di wazzappare o compulsare nervosamente il video dello smartphone alla ricerca degli ultimi aggiornamenti dagli amici o dal mondo dei social network. Una condizione che due studiosi italiani, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente dell'Università di Genova, descrivono come caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati da essere fuori dal contatto con un un telefono cellulare o un computer”.

Emozioni negative sproporzionate rispetto alla reale situazione di pericolo personale, ma che per questo diventano patologiche al punto che Bragazzi e Del Puente hanno pubblicato un documento sulla rivista Psychology Research and Behavior nel quale, in vista delle integrazioni al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-V) - la “bibbia” a cui si attengono psichiatri e psicologi di tutto il mondo per diagnosticare e trattare le patologie del comportamento – raccomandano l'introduzione della “nomophobia” nel novero delle nuove paure.

Nel paper, Bragazzi e Del Puente descrivono questa fobia a due facce: da una parte può essere utilizzata come “un guscio protettivo o uno scudo” in modo impulsivo, dall'altro “come mezzo per evitare la comunicazione sociale”. Si tratta di un paradosso che interessa le nuove tecnologie della comunicazione già noto alla psichiatria. Ma come si riconosce un malato di nomofobia? Ecco alcuni comportamenti sono a rischio:

- Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso, avere uno o più dispositivi, portare sempre un caricabatterie con se stessi;
- Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato a causa della mancanza di campo, perché la batteria è esaurita e/o c'è mancanza di credito, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l'uso del dispositivo (come il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti).
- Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati riceuti messaggi o chiamate. Si tratta di un disturbo che è stato definito "ringxiety", mettendo insieme la parola “squillo” in inglese e la parola ansia.
- Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno); dormire con cellulare o tablet a letto.
I ricercatori, che raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti patologici (pochi si salverebbero dalla diagnosi), citano uno studio relativo a un uomo brasiliano che per 15 anni ha tenuto il suo cellulare sempre con lui schiacciato dal terrore di non essere in grado di chiamare i servizi di emergenza o le persone care nel caso si fosse sentito male. "È innegabile - commentano i ricercatori - che la tecnologia attraverso i social media, I social network, l'informatica sociale e i "social software" ci permette di svolgere il nostro lavoro più velocemente e con efficienza, ed è anche vero che interventi grazie al telefono sono un aiuto medico utile. D'altra parte, i dispositivi mobili possono avere un impatto pericoloso per la salute umana".


FONTE:http://salute24.ilsole24ore.com/articles/16942-nomofobia-la-paura-e-sentirsi-disconnessi?refresh_ce

giovedì 10 aprile 2014

QUANDO UN ADOLESCENTE SI RIBELLA!

Se tuo figlio adolescente si ribella niente paura: vuol dire che riconosce la tua importanza e si deve opporre a te per crescere

Mio figlio si ribella e mi risponde male: cosa devo fare?
A volte i genitori si domandano: «Che cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo? Eppure ce l'abbiamo messa tutta per non fargli mancare nulla». Dubbi legittimi ma su una cosa possiamo essere sicuri: gli atteggiamenti ribelli e aggressivi non dipendono da noi, anche se in noi trovano un facile bersaglio. La ribellione è infatti una spinta vitale del tutto naturale: perché un ragazzo possa diventare uomo deve affrancarsi da mamma e papà. Ma per farlo ha bisogno di smitizzare, in modo anche ruvido, le figure genitoriali, mettendo in discussione i loro valori di riferimento, il loro modo di pensare, per poi magari recuperarli in seguito. E tanto più mamma e papà sono stati adorati dal bambino quando era piccolo, tanto più forte sarà ora lo strappo da loro.

Tuo figlio reclama più libertà?
«Tredici anni è un'età difficile», spiega Marilena Zanardi, psicologa. «Da una parte i primi segnali fisici dell'imminente maturazione sessuale producono nei ragazzi la convinzione di essere "troppo grandi" per sottostare ancora a vecchie regole. Dall'altra i genitori continuano a vedere "il piccolo" di casa. Presto o tardi il figlio si ribellerà, mettendo in atto tattiche di "guerriglia familiare" per obbligare i genitori a riconoscere la sua nuova realtà. Allora è inutile arroccarsi in un autoritarismo sterile, che rischia solo di inasprire lo scontro: l'umiliazione di essere "ricacciato nell'infanzia" scaverebbe un solco difficile da ricomporre fra i genitori e il ragazzo. Ma anche un eccesso di indulgenza produce danni: cedere o far finta di nulla è altrettanto umiliante perché equivale a ignorarlo. La soluzione è entrare nel suo gioco dandogli progressivamente autonomia e pretendendo al contempo che ne assuma fino in fondo le conseguenze».

Cosa fare se tuo figlio non sente ragioni? Ecco le mosse vincenti
"Se non mi lasci uscire, scappo di casa". Rispetto degli orari, voglia di indipendenza, libertà nella scelta di un proprio stile di vita: è questo il principale terreno di scontro fra genitori e figli. Ma che fare quando lui mostra una ribellione ostinata?

Rispettarlo
Il rapporto fra genitori e figli dovrebbe basarsi sul rispetto reciproco. Ai figli, fin dalla più tenera età, va riconosciuta una propria personalità, un proprio modo di essere e di stare al mondo, che può essere anche molto diverso dal nostro. Se dimostreremo di accettarlo così com'è, anche nei modi che non ci piacciono, lui ci rispetterà di più. Il diario, i cassetti, gli sms di nostro figlio, insomma tutto ciò che custodisce la sua vita intima, va trattato con discrezione, mantenendo un atteggiamento aperto e il più possibile  fiducioso.

Negoziare 
Un atteggiamento autoritario non paga: dicendo solo NO rischiamo di allontanarlo ancora di più, alimentando la ribellione occulta (un male ancora peggiore). Anche troppo permissivismo può fare danni: acconsentendo lo priviamo di una guida sicura e lo lasciamo in balìa di se stesso e di cattive influenze. Non resta che tentare la via del compromesso, valida per entrambi. Per esempio: "Accetto che torni a mezzanotte a patto che tu mi telefoni per dirmi dove sei". Oppure, se vuole il piercing: "Sull'orecchio va bene, ma sulle labbra, sul naso o sulla lingua no".

L'insulto non è ammesso
Urla, volano parole grosse e nostro figlio ci manca di rispetto. Offendersi non serve. Piuttosto riprendiamolo con fermezza e se insiste, si può ricorrere a una punizione. L'insulto va comunque considerato inaccettabile e contrastato in modo assoluto, anche se mai violento.

Polemizza su tutto: tieni ferme le regole
A nostro foglio non va bene nulla, è un continuo criticare. Non ribattiamo parola per parola, piuttosto agiamo. Contesta l'orario del rientro? Spieghiamogli le ragioni, senza cambiare idea. Se non rispetta le regole, non stanchiamoci di ribadirle. Prima o poi la semina darà i suoi frutti.


FONTE. http://www.riza.it/figli-felici/adolescenti/2599/mio-figlio-mi-tratta-male.html

martedì 8 aprile 2014

CRISI DI COPPIA?

La crisi di coppia, spegnendo momentaneamente la passione, può preparare le condizioni giuste per un nuovo coinvolgimento.
 
La crisi di coppia: l'errore più comune

Quando siamo innamorati e l'anima si accende di passione, spesso commettiamo un tipico errore di valutazione: riteniamo che una crisi di coppia  tra di noi sia impossibile, che la fiamma debba rimanere sempre accesa, forte e intensa.
Così, quando la persona che ci sta accanto dimostra improvvisamente una certa freddezza, noi ci ribelliamo tentando ostinatamente di ripristinare al più presto l'atmosfera precedente.
In realtà a volte questa "sopresa", appunto la crisi di coppia è l'indizio di una nostra precedente disattenzione, più che di un cambiamento improvviso del partner: ci sono stati segnali premonitori (frasi, comportamenti) che, semplicemente, non abbiamo colto. Il motivo? Abbiamo iniziato a dare per scontata la relazione, a vederla come un'abitudine. Risultato: abbiamo trascurato le richieste di attenzione del partner, innescando così anche un suo progressivo distacco e l'inizio della crisi di coppia.
Ma in moltissimi altri casi, è invece fisiologico che in una coppia si alternino momenti di grande vicinanza ad altri di maggiore distacco, che viviamo come crisi di coppia. Consideriamo che qualsiasi rapporto è ricco quanto più conosce la varietà, cioè se non vibra sempre sulle stesse note. In alcuni momenti prevale il calore e il coinvolgimento, in altri la freddezza e il distacco e, a volte, si può affacciare anche la crisi. La cosa peggiore sarebbe intervenire in questa preziosa alchimia cercando di imporre a tutti i costi ad un modello "di coppia sempre innamorata".

La crisi di coppia: l'atteggiamento giusto da adottare

Il primo passo da fare in questi casi è accorgersi della freddezza del compagno, non contrastarla e soprattutto non lamentarsene: innescheremmo solo una catena di rivendicazioni e litigi.
Al contrario la cosa giusta da fare è assecondare l'andamento irregolare di ogni relazione accettando che possa arrivare una crisi di coppia, vivendola però come una fase di rinnovamento e trasformazione del rapporto.
Il filosofo francese M. E. de Montaigne scriveva: «La nostra vita è composta, come l'armonia del mondo, di cose opposte e anche di toni diversi, dolci e aspri, acuti e bassi, molli e gravi. Il musicista che prediligesse soltanto i primi, che musicista sarebbe? Bisogna che se ne sappia servire nel complesso e amalgamarle...».
I momenti di distacco e freddezza, se vissuti consapevolmente come "una fase" in cui le due anime si svuotano l'una dell'altra, aprono la possibilità di un nuovo incontro ancora più ricco, perché liberato dal peso di abitudini e automatismi, cioè di tutti quegli atteggiamenti che rischiano di trasformare nel tempo la vita di coppia in una routine.


FONTE: http://www.riza.it/psicologia/coppia-e-amore/2032/la-crisi-fa-bene-alla-coppia.html

sabato 28 dicembre 2013

CAPODANNO: COME SCEGLIERE I BUONI PROPOSITI PER GRANDI E PICCINI!

Sarò più disponibile con la mia famiglia, con gli amici e con quanti hanno bisogno di una mano. Leggerò più favole ai miei figli e guarderò meno la televisione. A Capodanno, tutti noi facciamo piccole promesse per essere migliori.

Alcuni di noi già ad inizio dicembre compilano una vera e propria lista comprendente gli obiettivi più disparati: dal salutistico all’intellettuale, dal perdere finalmente quei chili di troppo ad iniziare una buona volta quel “tomo” da quasi mille pagine. Altri si pongono un unico, importante obiettivo. Altri ancora preferiscono la strada delle piccole rinunce: non passerò più tante ore a chattare o diminuirò la dose di cioccolato quotidiano. A Capodanno, però, è tradizione fare a se stessi una piccola promessa… abitudine che noi mamme trasferiamo presto anche ai nostri bambini. Non sappiamo, esattamente, come sia nata questa consuetudine dei buoni propositi: si tratta, probabilmente, di una esigenza innata nell’uomo, a prescindere da razza o cultura. Nel passaggio dal vecchio al nuovo, il corpo e la mente sentono la spinta a rinnovarsi almeno in parte, ad aprirsi al futuro. E, non potendo rinascere completamente, il rinnovamento viene simboleggiato appunto nel gettare via qualcosa di vecchio di se stessi, qualcosa che non piace e nell’aprirsi al positivo iniziando un nuovo percorso di miglioramento.
Un’esigenza di novità stimolante
Dietro ai buoni propositi c’è anche l’esigenza di porsi un nuovo traguardo, un obiettivo che spinga a vivere con più gusto e impegno la quotidianità. Ogni uomo e donna, ad ogni età, ha l’esigenza di avere uno scopo da perseguire e raggiungere per dare un senso alle proprie giornate, per alzarsi al mattino con più grinta e per sentirsi gratificati nel momento in cui l’obiettivo è stato raggiunto. Senza questo traguardo da raggiungere, è facile scivolare nella noia, nell’apatia e persino vivere forme depressive che derivano da una leggera demotivazione. E attenzione: il rischio non lo corrono soltanto le persone anziane o pensionate e quindi i nonni con molto tempo a disposizione. Anche una mamma attiva, con lavoro, casa e figli piccoli, pur tra i mille impegni quotidiani può avere l’esigenza di un piccolo spazio mentale solo per se stessa. Il proposito è quindi qualcosa che va al di là delle necessità di ogni giorno, è uno stimolo in più per dare il meglio di se e sentirsi gratificate da questo obiettivo.
Obiettivi semplici e gratificanti
Porsi degli obiettivi, sotto forma di buoni propositi, è sicuramente positivo: a patto di scegliere delle mete che non aggiungano un impegno eccessivo alla fatica quotidiana e che consistano, soprattutto, nel tentativo di migliorare se stessi. Non serve, per esempio, porsi l’obiettivo di andare in palestra almeno tre volte la settimana, o di mettersi a seguire una dieta strettissima per dimagrire. Il troppo impegno, se sommato alle altre necessità di tutti i giorni, finisce per risultare gravoso lasciando spazio alla frustrazione. Meglio, invece, porsi obiettivi che abbiano come miglioramento la propria quotidianità, il proprio modo di essere: essere più indulgenti con se stesse e non pretendere di fare tutto alla perfezione, ma riservare spazio e tempo per stare con il partner o con i bambini. Mangiare meno dolci, va bene, ma non per dimagrire: piuttosto, perché fa bene alla salute. Regalarsi ogni tanto un buon libro e trovare il tempo di leggerlo. Fare un po’ di volontariato: in un reparto pediatrico, in una casa per anziani, in un canile. Decidere per un’adozione a distanza, per un sostegno ai bisognosi che, in questo periodo, sono davvero tanti. Fare del bene, anche solo un’ora la settimana, aiuta a stare bene.
Piccoli impegni anche per i bambini
Anche ai nostri figli possiamo insegnare l’importanza di un piccolo obiettivo da porsi nel quotidiano. Per i piccoli è ancora più importante che per gli adulti, perché li aiuta ad assumersi semplici responsabilità, commisurate alla loro capacità di autogestione. Una volta raggiunto l’obiet
tivo, un bambino si sente gratificato, si sente grande e tutto questo lo aiuta a comportarsi meglio e a ripetere quell’esperienza positiva. Anche in questo caso non si devono scegliere obiettivi troppo distanti da lui e dal suo mondo: partiamo dalla loro quotidianità nella richiesta di un impegno da rispettare per l’anno nuovo. Difficile pretendere, per esempio, che una bimbo di sei anni sappia sistemare il proprio letto da solo, al mattino: mentre è un compito che può essere sicuramente affidato a un ragazzino o a una ragazza di 11-12 anni. Nostro figlio non ha ancora imparato a riordinare i propri giocattoli o vestiti alla sera? Il nuovo anno è sicuramente l’occasione giusta per partire da zero e prendersi questo impegno. E poi ancora ci sono la promessa di non dire più brutte parole, di essere più generosi con i propri oggetti, di limitare le occasioni di scontro con fratelli e compagni di scuola. Ma anche di concentrarsi meno su giochi e indumenti firmati e dedicarsi di più al miglioramento interiore. I più piccoli potranno scrivere su una lavagnetta il loro proposito, i più grandicelli, già pudichi, lo conserveranno dentro di sé. E quando l’avranno realizzato, anche solo in parte, sarà la più grande delle soddisfazioni.

NON MI RESTA CHE AUGURARE A TUTTI: BUON ANNO NUOVO!


Fonte: http://www.guidagenitori.it/la-salute/psicologia/2598-capodanno-tutti-i-buoni-propositi-per-iniziare-il-2013-con-ottimismo/